Autore della fotografia non identificato,
Galata morente, Roma, Museo Capitolino.
Roma, 1925 - 1934,
fotoincisione a retino, 18 x 24 cm.
Milano, fondo Scrocchi, ALBUM SCR_67 p. 124.
Magni, un Mito sui Muri Un thè sul Grammont
Il Leone
delle Fiandre racconta la sua prima vittoria sui Muri nel '49.
La corsa? Era venerdì, e si correva domenica, domenica 10 aprile. Lasciammo la
nostra roba nell’alberghetto, salimmo in bici e andammo a perlustrare il
percorso, soprattutto l’ultima quarantina di chilometri. C’era il pavè, che era
molto peggio di quello attuale, però finiva ai -25, poi l’arrivo a Wetteren, un
po’ in salita. Quella perlustrazione si rivelò importante. Poi ci fu un altro
colpo di fortuna.
Quale? Debaets ci chiese come fossimo organizzati. Siamo solo noi due, gli
risposi nel mio povero francese. Allora ci presentò un suo amico. Era un
massaggiatore. ’Vengo io’, si offrì. ’Vengo io a farvi il rifornimento’. Un
rifornimento volante oltre a quello ufficiale. Lo fissammo ai piedi del Muro di
Grammont, che era il punto più difficile. Una borraccia di thè zuccherato. I
belgi erano grandi sportivi, e in Belgio il ciclismo era lo sport nazionale, di
più, una religione.
Il via?
Freddo, pioviggine e nevischio. Ero carico: due borracce sul manubrio,
una sul telaio e un termos di thè zuccherato e bollente nelle tasche
posteriori, e sempre nelle tasche panini e tartine. E, dietro la sella, un
tubolare di scorta. Duecento corridori, almeno 150 erano belgi. La partenza era
stabilita su un vialone alberato: una corda, come se fosse una corda da
cavalli, da una parte all’altra della strada, e dietro i corridori. Io già
davanti, pronto, concentrato. E davanti a tutti una macchina. Pronti, colpo di
pistola, via, la macchina che partì piano, poi sempre più forte fino a quando
liberò i corridori. E cominciò la battaglia. A quel punto, c’erano già
corridori staccati di mezzo minuto.
Come andò?
Duecentosessantotto chilometri. I primi 100 li interpretai come se
fossero una scuola di vita, un’accademia del ciclismo, un’università del pavè.
Davanti ma coperto. Guardavo e imparavo. Quando si dovevano affrontare i tratti
di acciottolato, molti si schieravano sui lati della strada, nelle banchine.
Invece io rimanevo al centro: filavo, galleggiavo, volavo.
Una bici
speciale?
Avevo fatto mettere della gommapiuma sul manubrio, per ammorbidire colpi
e vibrazioni. Gli altri corridori mi prendevano in giro, poi mi copiarono. E
avevo fatto montare cerchioni di legno. Era un legno pregiato, stagionato,
trattato come se fosse vino: stava in cantina una decina di anni. Questi
cerchioni di legno erano più leggeri e meno rigidi di quelli di ferro. In
Italia non servivano, ma alla Roubaix e al Fiandre aiutavano. E anche le gomme
erano particolari, più larghe e pesanti. La fortuna - un’altra nella mia vita -
era l’amicizia con Alfredo Pitto, mezzala del Bologna e della Nazionale. Pitto
aveva sposato la figlia di Clement, il re delle gomme. E così, come gomme e
cerchioni, avevo proprio i Clement: i migliori.
Sul
Grammont?
Andai in fuga poco dopo metà corsa, prima con altri quattro o cinque, poi
da solo, sul pavè. Due-tre minuti di vantaggio. Prima del Grammont vidi il
massaggiatore amico di Debaets, che mi allungò la borraccia di tè zuccherato:
un toccasana. Una settantina di chilometri di fuga, poi venni ripreso da 15-20
corridori. Mancava una decina di chilometri all’arrivo. Pensai: è finita.
Pensai anche: tiriamo il fiato. E mi misi in mezzo.
Si arrivò in
volata?
Nonostante la fuga, ero ancora il più fresco di tutti. Fu una volata di
potenza, per quella poca che ce n’era rimasta. E vinsi davanti a due belgi,
Valeer Ollivier e Brik Schotte. Ma che fatica. Una fatica da morire. Però
sapevo che, nonostante la fatica, sarei tornato.
Marco Pastonesi (La Gazzetta
dello Sport)
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